Cibo di mano, scarpetta da villano?

Cibo di mano, scarpetta da villano?

«Gioco di mano, gioco da villano» e «non si gioca col cibo» sono due capisaldi dell’educazione di ognuno di noi, che richiamano momenti della fanciullezza in cui l’adulto a turno ci sgridava – o meglio riprendeva – con una sorta di cantilena didascalica. Come imprinting, quindi, verrebbe naturale definire maleducato qualsiasi contatto tra mano e cibo, ma le cose non sono così semplici… soprattutto se le “regole” non sono univoche, e se ci mettiamo dentro un po’ di nostra personalità.

Ho sempre pensato che il rapporto col cibo sia fortemente indicativo della psiche di una persona. Non per niente ci sono vari proverbi che rimarcano come “si conosca veramente qualcuno solo dopo averci mangiato insieme un po’ di volte”: vale se state flirtando con una ragazza, vale se state concludendo un affare, similmente a come potete valutare il rapporto altrui coi soldi in base a chi offre il caffè.

Ebbene, il cibo è uno dei più grandi piaceri della vita, e difficilmente qualcuno mi contraddirà sul punto. L’enogastronomia è diventata fin troppo oggetto di attenzioni e nessuno la trascura più. Molto bene. Ma a tavola ci sono ancora dubbi serpeggianti, che riguardano la scarpetta col sugo buono avanzato da un primo, oppure che assalgono i commensali al momento in cui viene servita una timida quaglia o un mini-gamberetto, saldamente arroccato dentro il proprio esoscheletro. Tenace carapace. Le prime scene che vengono in mene sono quelle di fantozziana memoria, e includono normalmente figuracce per lancio di pomodorino involontario, o spruzzata di limone sul vicino.

Dalla teoria…

Fermiamoci un attimo, prima di parlare di scarpetta: il mondo del galateo si divide in due filoni teorici (magari fossero solo due, in realtà… anche in dieci, ma semplifichiamo), da un lato Monsignor Della Casa che è forse il primo vero autore di un Galateo in senso “moderno” (1558), dall’altro diciamo “l’influsso vittoriano”, che ci arriva insomma da quegli stessi personaggi che andavano in giro a coprire le pudenda delle statue classiche per non far arrossire le gote alle fanciulle. O che coprivano le “gambe” dei tavoli.

Ecco, la prima delle due teorie riassume secoli di costumi per cui ci sono alimenti che si mangiano con le posate ed alimenti che richiedono – necessariamente – l’uso delle mani. Per esempio la cacciagione, i volatili, compreso il cosciotto o le alette di pollo, i crostacei ed i molluschi, sarebbe maleducato mangiarli con la forchetta, sgusciandoli con il coltello.

La seconda teoria, invece, come è immaginabile vede con ribrezzo qualsiasi contatto fisico con il cibo. E’ quasi un richiamo al peccato di gola o lussuria, quindi anche se vi servissero un piattino con un’oliva al centro, voi non potreste mai e poi mai toccarla con indice e pollice. O sputare il nocciolo nel pugno chiuso della mano. Idem se mangiate la famigerata quaglia o se cercate “scampo” nel mangiare un gamberone. Mai, mai toccare alcunché con le mani.

…alla pratica

In medio stat virtus: qui confesso che ci sono due elementi che giocano a mio sfavore come “consigliere” imparziale sulla materia. Uno riguarda il mio rapporto molto appassionato col cibo, per cui consistenza e sensazioni tattili rientrano non meno di quelle olfattive e gustative nel dominio degli alimenti; l’altro, il fatto che tenda ad affezionarmi alle tradizioni più risalenti, anche quando un po’ sorpassate. Avrete compreso che un po’ mi lascio suggestionare più da un Della Casa, che fa ancora sognare banchetti medievali con enormi cinghiali arrostiti portati in tavola, brocche di idromele o vino, e mastini da guerra tutt’attorno ad azzuffarsi per qualche avanzo gettato a terra, piuttosto che dalle damìne che nel cuore dell’Impero Britannico sorseggiano un tè con assoluta indifferenza per qualsiasi cosa accada loro attorno.

Ma il mondo d’oggi ha poca cultura e la semplificazione dei costumi lo dimostra. Di fronte ad una cornucopia di crostacei, sarei tentato di gettarmi a capofitto, sporcandomi fino al gomito e sentendomi in diritto di trovare molto maleducato il padrone di casa di turno che non mi servisse il necessario per ripulirmi. Eppure, se sono al ristorante ed ho solo il classico tovagliolino, sono il primo che con forchetta e coltello sguscia tutto quel che deve sgusciare, e senza schizzi e senza frizzi, finisce il piatto come un chirurgo che sta operando la valvola cardiaca di un paziente importante. La regola generale rimasta, infatti, è quella di “non sporcare e non sporcarsi irrimediabilmente”. Triste ma vero. Se avete una pesca succosissima davanti a voi, e siete a tavola, morderla implicherebbe irrorarvi le mani di liquido appiccicoso, e il mento, e probabilmente la camicia. Usate forchetta e coltello, e non ci dovrete pensare.

Se però vi sentite portati per qualche motivo a mangiare qualcosa con le mani, diffidate di chi vi guarda con orrore e rassicuratevi etichettando mentalmente ed intimamente il suo atteggiamento come un po’ borghese.

La scarpetta.

Una riflessione a parte merita il fenomeno della “scarpetta”. Famoso e a volte irresistibile piacere aggiunto, ciliegina sulla torta. La scarpetta, centrale nella storia di Cenerentola, è a volte proibita, a volte sconsigliata, più spesso consentita, raramente obbligata. E l’utilizzo di posate è inversamente proporzionale alla tollerabilità del gesto.

Scarpetta d’obbligo

In molti casi la scarpetta non è una vera e propria scarpetta, ma parte integrante della ricetta che vi viene servita. Normalmente si presenta sotto forma di crostini o pappe reali o altri elementi che – dall’interno di una cremosa zuppa – vi osservano desiderosi di esser mangiati. Qui si usano le posate e non ci si pone neppure il problema, quel sottile croccantino che spezza la vellutata è un sollucchero lecito e doveroso.

Scarpetta opzionale

Nella stragrande maggioranza dei casi la scarpetta non è prevista. Se però residuano parti cremose e sugose della pietanza che avete ingurgitato allora si pone l’interrogativo: si può? Tendenzialmente no, perché è un atteggiamento che lascia intendere che avete ancora fame (la “fame” vera e propria non è mai elegante, bisogna sempre trovare il modo di far capire che il proprio è “entusiasmo” non “stato di bisogno”) e che non vi è stato offerto abbastanza cibo. Eppure tendenzialmente anche sì, perché è un complimento a chi ha cucinato.

Visto che è intesa come una trasgressione, trovo inutile dissimularla utilizzando le posate: ad esempio lasciando cadere pezzetti di mollica e poi recuperandoli con la forchetta. Non siete Pollicino e tanto vale fare le cose con ironia, magari invece che nascondendosi sotto il tavolo per il delitto di scarpetta ringraziate la cuoca (o il cuoco) e fate complimenti, sinceri visto che avete dimostrato il vostro apprezzamento. Usate le mani ma non pulite in modo maniacale il piatto. Quello, in effetti, può risultare eccessivo: chi facendo scarpetta restituisce un piatto più pulito di quando è stato preso dalla credenza ha sempre quel non-so-chè di potenziale serial killer che crea un filo di diffidenza.

Scarpetta vietata

In realtà, la scarpetta è vietata quando creerebbe scandalo. Nulla è così irresistibile, a tavola, da non essere sacrificabile. Se quindi capite da quanto se la tirano i vostri commensali che vi riterrebbero una sorta di cafone primitivo, un Celentano dei primi film venuto dalla campagna, ponetevi una domanda ed agite di conseguenza. Volete bene a quelle persone? Vi sono essenziali? Se la risposta è sì, valgono più di una scarpetta. Se la risposta è no… sornioni, con un portamento impeccabile e con un sorriso gentile, pucciate il pane nel vostro piatto e siate soddisfatti di voi stessi. Insomma, il divieto è estrinseco, non intrinseco.

Ah, ovviamente, la scarpetta è sempre vietata nel piatto altrui o di portata (salvo che non siate in Cina o nel Magreb): non siete Giuda e qualcuno potrebbe schifarsi, in questo caso lecitamente.

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